domenica 26 dicembre 2010

ci manca qualcosa

Alle sei mi alzo. Vorrei dormire ancora ma questa è una delle cose che il mio corpo mi impone.
Non apro gli occhi quando ritorno. Sento le ossa delle gambe premere contro i tendini e i muscoli contrarsi per soffocarle. Mi ci vuole un po' per capire che sono sveglio. Fino ad allora cerco di adattare la mia vita a ciò che ho sognato. Rimettere tutto in fila è faticoso.
Poi il mio corpo mi impone di alzarmi. Lo sciame che mi attraversa le gambe diventa insopportabile. E' nel momento che infilo le pantofole che capisco di aver solo sognato. Mi sento sollevato. Tutta quella fatica a sistemare le cose. Non so se ce l'avrei fatta. Intorno l'aria è gelata. Come al solito la caldaia è in blocco. Non accendo la luce. Potrebbe disturbare. Tanto ho stampata nella mia mente la disposizione di tutti gli oggetti. E' una sensazione rassicurante. Sapere che fra la televisione e la porta del bagno devo sollevare i piedi perché c'è il filo della corrente. Ricordarsi di aprire la porta con decisione, almeno non cigola la maniglia. Chiudere la porta al buio e vedere che il mio dito finisce esattamente sull'interruttore. Né un centimetro più in là, ne uno più in qua.
La luce mi mostra la faccia di uno che non conosco. Del resto lo specchio è falso. Non per nulla inverte le parti. Mentre attraverso lo spazio che lui può vedere lo osservo con la coda dell'occhio.
Ci manca qualcosa.

Quando rientro in camera lei è distesa sul letto. Tiene le gambe in una posizione innaturale e si guarda le unghie dei piedi. Le ho tolto la parrucca la sera prima. La preferivo con i capelli corti. Mi era piaciuta per quello. Tagliare i capelli a una donna mi ha sempre affascinato. E' un sogno che faccio spesso. La faccio sedere su una sedia di legno scuro e le taglio i capelli. Inutile dire che è nuda. I capelli le fanno anche da vestito. Mi siedo sul bordo del letto. Cerco uno spazio pulito.
Poi il telefono squilla. Il telefono è sul suo comodino e sono costretto a stendermi di nuovo sul suo corpo per rispondere. Parlo al telefono dei brani per la cerimonia e mi chiedo come tutto questo sia cominciato. Riattacco. Devo fare la doccia. Esco dalla stanza e chiudo la porta alle mie spalle. La scala è buia ma avevo lasciato aperta la porta della cantina. Lassù è di nuovo domenica.









Magritte

martedì 7 dicembre 2010

Infanzia

Alla fine tutto si riduce ad una manciata di avvenimenti. Una risibile serie di se ed allora. Ma forse mi sbaglio. Forse alcuni nascono semplicemente così. E' uno dei primi ricordi chiuso dentro di me. Eravamo andati a fare un giro intorno al lago. Era la fine dell'estate e l'aria cominciava a cambiare. Mi avevano tenuto legato al susino dietro casa tutto il giorno. L'ortica non mancava e le mie gambe friggevano di bolle. Sul lago le ombre erano più fredde e si parlava di meno. Non che mi rivolgessero spesso la parola. Ero come trasparente. A quel tempo ero convinto di esserlo. Quella faccia riflessa nello specchio mi sorprendeva. Il sentiero si allontanava un po' dalla sponda seguendo l'argine che si inarcava sull'acqua. Stefano scivolò senza un grido, senza neppure tentare di aggrapparsi agli arbusti che coprivano il costone. Ricordo bene lo schiocco dell'osso che si rompeva e quel modo strano della gamba di attaccarsi al corpo. Mi sedetti sul ciglio dell'argine a guardarlo. L'altro mio fratello, quello di cui non ricordo il nome, corse a chiedere aiuto. Io rimasi a guardare Stefano, le mie gambe piene di bolle che frizzavano all'aria. Mi sporsi in avanti dondolandomi come su un'altalena. Sentii che il sasso dove ero seduto si muoveva. Mi chiesi se sarei mai riuscito a sollevarlo.







Werner Heisenberg spiega il principio di indeterminazione

mercoledì 17 novembre 2010

E' solo per il loro bene

Li immergo in acqua bollente. La pelle viene via più facilmente. A volte riprendono i sensi, per qualche istante. Hanno occhi bolliti ma non mi fanno paura. Forse un'ombra. Un ricordo fastidioso. Nulla di più. Ho costruito un congegno per sollevarli dalla vasca. Non potrei toccarli. Scottano. Li sdraio sul lettino di quando ero piccolo. Spesso i piedi sporgono e mi tocca segarli. E' un peccato. Ma certe misure vanno rispettate. Certi eccessi ricondotti alla normalità. E' solo per il loro bene.

martedì 26 ottobre 2010

Terza dimensione

Scendo gli scalini della mia casa. Quella dove sono anche nato. Ho attraversato i suoi silenzi con fatica. Lo spazio era già occupato da ricordi che non mi appartenevano. In ogni caso io non li volevo. E' una pelle di cui avrei fatto volentieri a meno. Un limite fra su e giù, fuori e dentro. Tutto quello che riesco ad apprezzare sta in superficie. Questi scalini sono la cicatrice dove spingo il mio sguardo. Sono il mio modo di approfondire. Scendo tra i quadri brutti, quelli che mia madre si rifiutava di mostrare in salotto. L'umidità innerva le pareti gialle. La puzza di muffa si infila nelle mie narici. Scendo nello stomaco di questa casa appoggiata sull'acqua, a pochi passi dal fiume. Ho una torcia. Troppa luce sarebbe insopportabile. Emerge dal buio solo ciò che voglio vedere.










Magritte
Impero delle luci

giovedì 19 agosto 2010

Come un germoglio

Il giornale è un lenzuolo. Parole che vegliano sulla mia assenza. Ho tolto le scarpe e sistemato il cuscino. Le imposte sono sempre chiuse. La luce viene dal pavimento. Dove ho appoggiato la lampada. Mi sono raccontato storie per distogliere la mia attenzione. Il divano ha fatto il resto. Allungo le braccia. Senza dormire non si può vivere. I miei sogni sono senza parole. Sono ciò che non si può dire. Ho mangiato da solo. Mi toccherà cucinare di nuovo e non mi dispiace. Faccio ottimi spaghetti al pomodoro. Nessuno si è mai lamentato della mia cucina. Anzi. Immergo I pomodori nell'acqua bollente. La pelle viene via più facilmente. Salto i pezzi di polpa nell'olio insieme a due spicchi d'aglio, la fiamma alta. Sale quanto basta. Scolo la pasta a mezza cottura e la aggiungo al sugo. Insieme a una foglia di basilico. Lo coltivo nella serra in fondo al giardino.
Ho sognato un'altra vita. Una dimensione diversa e sorrido, quasi che fosse stato possibile. Mi chiedo se quel basilico arrivi di là, da l'altra parte di me che non è stata. Come un germoglio che fora questa neve bianca.

domenica 6 giugno 2010

Prima Comunione/Il pane

Quando esco di chiesa ho fame e devo passare a prendere il pane. La commessa me lo lascia sulla finestra del forno. Adesso fa più caldo ed il vento si è quietato. Tengo il cappotto piegato sul braccio e il braccio rigido davanti a me. Come se aspettassi un attacco e fossi pronto a concedere al mio avversario quel bersaglio. Consapevole della necessità di mettermi in una posizione di forza. Questo è qualcosa che ho imparato solo con il tempo. E con la pratica. Il do ut des che governa la mia vita è lo stesso dei miei antenati latini. Nessuna armoniosa spiegazione del mondo. Nessuna filosofia che abbozzi un tentativo di risposta. Non ho fiducia nel ragionamento. Nella mia capacità raziocinante. Le regole sono tali perché funzionano. Punto. Se le regole fossero violate perderebbero la loro natura e cesserebbero di essere regole. Anche se esistono delle eccezioni. La qual cosa mi fa sempre sorridere. Tutto è un meraviglioso susseguirsi di eccezioni. Un escamotage continuo che permette una via di fuga. La possibilità di conformarsi al precetto. Qualsiasi cosa accada. Mi lasciano il pane sulla finestra del forno. Passo a pagare ogni primo martedì del mese.
E' lo stesso forno dove venivo da bambino e la commessa annota le mie spese sullo stesso quaderno unto. Metto tutto quel pane in fila davanti ai miei occhi e cerco di calcolare quanto pesi. Quanta fatica è costato impastarlo. Quanta legna hanno consumato per cuocerlo. Infilo la mano tra le sbarre per afferrare il sacchetto di carta. Devo girarlo su se stesso per trovare il modo di farlo uscire. Sono abitudinario. Prendo sempre una bozza da un chilo. Ma la sua forma non è mai uguale. La commessa non mi è simpatica e immagino che sia un sentire condiviso. E' anche vero che il pane mi avanza sempre. Ma un taglio diverso non avrebbe quel sapore. Infilo anche l'altra mano dietro le sbarre. Sto attento a non macchiarmi le maniche dell'abito. Penso che visto da dietro devo sembrare una mosca nella ragnatela. Il mio naso si infila in giorni passati. Mi sveglio con l'odore del pane. So che è estate e la scuola è finita da qualche giorno. I rintocchi delle campane rimbalzano sulle persiane. Sento che mi sto perdendo e allora mi costringo a fissare l'interno del negozio. Conto i pacchi di pasta allineati sul bancone. Non vorrei ma sono costretto a farlo. Lo spezzo senza toglierlo dal sacchetto. Ha fatto quel rumore che conosco. Quello da cui si riconosce il pane buono. Adesso ci passa. Adesso ha assunto la sua forma. Sarà per quello. O forse perché non so come fare a tenere il sacchetto che mi rinfilo il cappotto.

giovedì 27 maggio 2010

Prima Comunione/Controvento

Il vento freddo mi sostiene. Spingo la mia testa in avanti, dentro le sue braccia. Ho il cappotto di mio padre. Mi adatto alla sua forma. Modella il mio modo di camminare e dentro e fuori coincidono. Lo vedo riflesso nelle vetrine spente, sottrarsi al mio sguardo. Il bavero alzato. Le mani spinte in fondo alle tasche. Ora silenziose nel buio della loro tana. Serrate strette su manciate di spiccioli. Il marciapiede è deserto e mi precede la sua ombra sulla strada. Si allontana sballottata dalle raffiche gelide ed io immagino di cadere in avanti. Di schiacciarla. Faccio suonare le monete, come per avvertirla del mio ingombro. Come quando suonavo il campanello dorato durante la funzione, quando il prete si inginocchiava e io davo il segnale. Lo scampato pericolo. Allora percepivo solo un senso di sollievo, la sensazione di averla fatta franca. Dio era stato a un passo e , volendo, avrei potuto toccarlo. O lui toccare me. Adesso avrei saputo che parole dire. Niente saette, rilassatevi gente! Anche per oggi siete salvi e potete tornare alle vostre case. Forza alzatevi, tornate alla vostre tavole imbandite. Anche oggi non vi fulminerà il Signore. Magari vi farà stramazzare quel quarto di bue che rosola nei vostri forni o il vino cattivo che vi mangia il fegato. Ma il Signore no, quello avrà pietà di voi. Entro dalla porta laterale e d'istinto mi volto verso la panca sotto la statua di San Sebastiano. Infilzato come un pollo allo spiedo. Mi aspetto che la statua sanguini. La Chiesa è deserta e stranamente calda. O forse sono io. Forse sono io che come lui non sono morto. Ci hanno raccolto e si sono presi cura di noi. Nonostante tutto. Nonostante che non ci fosse nessuna ragione di farlo. Senza aspettarsi niente in cambio. Penso che così è l'amore e mi sembra impossibile. Ma è un mio limite. Capisco che è per questo motivo che mi capita di sbagliare strada. Adesso mi conosco meglio e so come comportarmi. Spengo il navigatore e mi prendo il tempo necessario. Accosto il furgone, e metto il motore al minimo. Sono paralizzato e non riesco ad aprire i finestrini. Spesso i miei passeggeri mi guardano con occhi sbarrati e a loro volta non riescono a parlare. Io mi aspetto di morire e mi incuriosisco di strane questioni. Chi mi troverà? Saprò già cattivo odore? I miei occhi saranno aperti o chiusi? Stranamente vorrei averli aperti e mi sforzo di non sbattere le ciglia. Conto quanto riesco a resistere. Uno, due, tre....le frecce si infilano nella mia carne ma non fanno male. Otto, nove, dieci.....sbatto le ciglia. Sono morto. Uno, due, tre, quattro.......sento il suono della sua guancia che graffia la mia e i mie piedi non toccano terra. Dieci, undici, dodici..... Sbatto di nuovo le ciglia. Lui ha occhi grandi capaci di guardare anche per me. Ed io sono stato i suoi occhi. Sono vivo anche per questo. Forse sto sognando e ne sono felice. Fin da piccolo ho avuto consapevolezza che niente è più reale dei sogni. Entro nel confessionale e mi chiudo la porta alle spalle. Mi inginocchio e come sempre ho la tentazione di sentirmi bene. A casa.








Andrea Mantegna
San Sebastiano

sabato 10 aprile 2010

Viaggio

Aggrappato ad una valigia ascolto i miei passi attraversare incerti la notte, sotto le stelle curiose di Marzo che se la ridono: di un caffè, dei titoli di un giornale, di un treno che dorme nel ventre di una stazione, di un viaggiatore che ad ogni passo cambia colore, forma, aspetto, sostanza. Che abbandona quello che era e ignora ciò che sarà.

migranti 6.

La stanza è troppo bianca, verniciata di fresco. Da quando si è svegliata non parla e non mangia. Le pareti vuote la proteggono da tutto e tutti. Sente i capelli di lui sotto le mani e lo accarezza mentre i pesci strusciano le squame sulle sue gambe. Non c’è rumore, solo scie che guizzano sul suo corpo. Non prova dolore. Sa che non ne proverà più, almeno finché starà chiusa la dentro con i suoi capelli che si attorcigliano alle sue dita. Ma i pesci sono troppo grossi per non farle paura. Said aveva ragione.
Guarda la cannula della flebo sparire nel suo braccio, come se stessero cercando di pescare qualcosa dentro di lei, dentro al suo nulla. E allo stesso tempo le pompassero dentro i ricordi. Ha cominciato a ricordare i capelli e con essi è arrivato il suo volto.
- C’è qualcuno che tira in fondo alle corde?
Chiude gli occhi e vede la costa allontanarsi lentamente mentre le onde divengono appena più alte. Sente le sue spalle magre tremare mentre lo cinge fra le sue braccia.
- Non aver paura Said. Ci aspetta una nuova vita…..
- Ma i pesci, sei sicura che non ci siano pesci così grandi?
- Te l'ho già detto, stai tranquillo. Noi vedremo posti meravigliosi.













Rain Room al Barbican, Londra

lunedì 22 febbraio 2010

migranti 5.

Università di Gherro. Facoltà di antropologia. Restauro di pellicola cinematografica del 2057, rinvenuta nei magazzini degli studi Mondial di Legaend.

“Salgono sulla barca mentre comincia ad albeggiare. In fila sulla banchina, fradici, sotto la pioggia. Un bambino, occhi spauriti, si guarda intorno, come se cercasse qualche volto conosciuto. Tira la mano di sua madre e le bisbiglia all’orecchio.
- Non c’è nessuno di quelli che hanno viaggiato con noi attraverso il deserto?
- No, non c’è nessuno, Said.
- Siamo comunque tanti mamma. Ho paura. Sono quelle enormi corde che tengono a galla la barca?
- No Said, servono solo a tener ferma la barca. Così possiamo salirci sopra.
- C’è qualcuno che tira in fondo alle corde?
- No di certo, sciocco. C’è un una specie di uncino di ferro che si chiama ancora.
- Serve per pescare pesci?
- Non esistono pesci così grossi, non in questo mare.

Il bambino la guarda perplesso, per nulla convinto dalle sue spiegazioni.
Salgono e riempiono ogni spazio, come sabbia dentro una bottiglia.
Il motore si avvia e lo scafo comincia a vibrare. L’uomo alla guida fa un cenno al marinaio a terra. Lentamente la barca si allontana dal molo dirigendosi verso l’imboccatura del porto. I raggi del sole bucano le nubi e strisciano sull’acqua catturando i loro sguardi. Come chicchi di girasole si voltano verso la luce.

giovedì 18 febbraio 2010

migranti 4.

Estratto dal disco primitivo di un rudimentale sistema informatico disseppellito nello scavo della nuova metropolitana di Xiang Chei, enclave cinese nel cuore degli stati federali d’Europa. Il frammento appare miracolosamente integro e apre nuovi interrogativi sui flussi migratori che si verificarono in quei territori agli inizi del terzo millennio.

“Viaggiavano nel deserto del Teneré da tre giorni e l’acqua cominciava a scarseggiare. Ogni tanto si fermavano per bere e i due Tuareg armati che precedevano il camion nel loro fuoristrada climatizzato la attingevano da due dei fusti e la distribuivano. Quando quelli nel cassone videro che non ce n’era quasi più uno dei più ardimentosi scoperchiò uno dei fusti di benzina e i Tuareg lo buttarono di sotto e lo lasciarono lì a morire. All’inizio Said sperò che gli sparassero. Sapeva che un proiettile in fronte è mille volte meglio di morire di sete in mezzo al deserto. Il sole ti scioglie la carne e la decompone quando è ancora attaccata alle ossa. Il cervello ti frigge e ti fonde gli occhi. E vorresti essere un mai nato, un sasso o una manciata di sabbia rovente. Sentì le sue urla mentre si allontanavano. Poi sperò che fosse uno di quelli che avevano riso intorno al fuoco, la prima notte, quando sua madre si era allontanata. Si sentì meglio e si addormentò.
La sua testa rimbalzava contro il finestrino, allora apriva gli occhi ma non si svegliava. L’odore di sua madre bastava a renderlo tranquillo e a narcotizzare la sua mente. Ogni tanto sognava il mare , sentiva l’acqua impattare violentemente contro il suo corpo e adattarsi alla sua forma. Un enorme distesa d’acqua che non si poteva bere. Fatta di dune liquide da solcare per raggiungere altre terre. “Piene di tutto quello che qui non c’è”, diceva sua madre. “Dobbiamo andare là, figliolo. Qui non c’è più niente a trattenerci. E anche se ci fosse voglio che tu veda più che la sabbia e il sangue. Macchine veloci e case altissime con letti morbidi. E posti con tanto cibo da scoppiare. E animali da viverci insieme che non si devono mangiare. E scatole piene di vita, che parlano”. Lui aveva visto la televisione alla stazione degli autobus di Agadez e voleva passarci dentro per andare dove c’era tutto. C’era da mangiare e nessuno ti avrebbe tagliato la testa. C’erano scuole e avrebbe potuto iniziare una nuova vita, di là dal mare, dove c’era la felicità”



Immagine da : come-uomo-sulla-terra-documentario-libia.html




martedì 16 febbraio 2010

migranti 3.

Testo trasmesso in forma orale di una canzone risalente agli ultimi
anni del terzo millennio, cantata spesso nelle feste dei clandestini rifugiati nella vecchia Europa.
Sono attribuiti ad essa vari titoli: camion/insetto, sogno, nave rovente.
Comunemente conosciuta come “la ballata di Said”.


La sua carezza spenge le stelle
e lo guida dentro le sue paure.

La salvezza è chiusa nel palmo
della mano che attraversa.

Il rumore lo raggiunge da molto lontano
e nel sogno sente i leoni correre verso di lui.

Hanno occhi scintillanti e ruggiscono
cavalcati dai ginn, gli spiriti del deserto.


Poi si alzano in piedi
mutandosi in uomini magri e affamati
con denti aguzzi al posto delle ciglia.

I machete sprizzano sangue nell’aria,
nella terra che rimbomba sotto i loro passi,
e nelle parti più lontane del suo corpo.

Si sveglia in una nuvola di sabbia
che gli invade la vista ed i polmoni.

Il motore si spenge in un lamento roco
che scivola via dalla sua pelle metallica
e dirada l’oscurità. E’ un camion.

Cinto di fusti scrostati,
troppo grasso per spiccare il volo,
accerchiato dai pellegrini.

Vogliono un passaggio per la libertà,
il biglietto vincente della lotteria.
Hanno pagato molto, ma non abbastanza.

Trascinano la loro vita
verso le sue zampe gommose.
Hanno pagato molto, ma non abbastanza.

Lottano per salire,
vogliono il loro passaggio per la libertà,
ma non c’è posto per tutti.


Tira la sua veste e svegliala,
non è il momento delle carezze,
o sarà troppo tardi quando sarete pronti.

La salvezza è chiusa nel palmo
della mano che attraversa.

La sua carezza spenge le stelle
e guida attraverso la notte.

lunedì 15 febbraio 2010

migranti 2.

Anno 612 dopo la luce.
Sito di Sandzhum, Terre aride.
Diario del professore Xiang Chiau.
Reperto 1756j. Supporto cartaceo con scrittura primitiva. Alcune parole sono illeggibili e sono identificate con xxxx. Si è comunque riportato le lettere leggibili all’interno delle parole non comprensibili.
Stiamo cercando di capire il contesto. Probabilmente un usanza tribale dell’inizio del terzo millennio.
“Said sente gli occhi xxxxx. Un tuareg(1) seduto…su ..osso pneuxxxxx scolpito, affondato nella sabbia, vigila sul gruppo che bivacca…………. Guarda la sua testa axxxxxxdare il percorso degli occhi, tradito dal cerchio rosso di una sigaxxxxx che si sposta su di esso. Aspettano il camion(2). La nave con cui avrebbero attraversato il xxxerto. Erano arrivati da Agadez in ………, sballottati su sedili logori gonfi di rumori e xxxxxx. Sua madre …………………. di non abituarsi a quelle comodità, perché dopo, sul camion, sarebbe stato molto xxxxxx. Lui non riusciva ad immaginarsi un posto peggiore di quello. Ma le aveva creduto. Sapeva che lei aveva già percorso quella via e che non gli mentiva xxx.
L’uomo ………………… un’altra di quelle puzzolenti sigaxxxxx. Abbassa il turbante(3) che xxx nasconde il xxxxx, se la ficca in xxcca e l’accende. Quando erano arrivati, al tramonto, gli ……………. davanti e lui era rimasto lì, a bocca aperta, a fissare gli stivali neri da xxxxxxxxsta. Adesso il kalashnikov(4)attaccato alla cinghia, come un xxxccio artificiale(5) spento, ……… sotto la luna. Aveva preso quasi tutti i loro soldi, ed anche …………….. L’aveva visto discutere xxxxx con sua madre, prima. E indicare più di una volta con la canna dxx xxxxx verso di lui. Lei ogni volta aveva scosso la testa e aveva………………. mostrandogli il suo corpo. Sua madre xxxx bella. Non aveva mai visto una donna più bella(6). Poi lei …………. affidato Jasmin e gli aveva chiesto di …………….. Si erano allontanati un po’, oltre la duxx, seguiti dal borbottio schifoso……………………… era tappato gli orecchi per non sentire. Aveva seguito le loro xxxx con sua sorella in bxxxxxx. L’aveva adagiata sulla sabbia …………. strisciato nell’oscurità fino al ciglio della duxx. Sua madre si era xxxxxxxchiata posando la testa a terra. Lui …………….. penzolare il kalashnikov che lo xxpacciava sulla sua schiena. Aveva xxxxx il mitra(7) sbatacchiare ………………….., agitato …………….. dei suoi fianchi, e aveva pregato(8) perché non partixxe una rxxxxxx. Quando ………. sentito il grugnito(9) dell’uomo exx txxnxxo ……….. passi, aveva afferrato sua sorella …………………, ed era corso verso i fuochi dell’xxxxxxmento sballxxxxxxla come ……bambola(10) di pexxx.

(1)Tuareg, popolazione nomade del nord Africa.

(2)Camion, mezzo di trasporto primitivo munito di ruote spinto da motori a petrolio (combustibile fossile esaurito agli inizi del terzo millennio).

(3)Turbante, forma arcaica del verbo turbare, forse intesa nel senso di colui che turba, che disturba.

(4)Kalashnikov, antica arma usata da dalle popolazioni indigene dell’Africa occidentale priva di una reale efficacia ma molto utile per l’intimidazione dell’avversario in quanto significante potenza.

(5)Artificiale, nel significato odierno sinonimo di reale. Parola spesso usata in contrapposizione di naturale anche se ad oggi sfugge il nesso.

(6)Sembra alludere ad una differenziazione fra l’aspetto esteriore dei singoli individui, tipico delle società primitive.

(7)Copricapo proprio dello sciamano all’interno della tribù. Simbolo di potere.

(8)Pregare. Affidare se stessi ad un altro affinché realizzi i propri desideri.

(9)Verso degli animali*, cioè di coloro dotati di anima. Forse sinonimo di preghiera.

(10) Bambola, raffigurazione di se stessi da parte dei primitivi. Se ne ignora la
motivazione.



Kalašnikov è il nome con cui ci si riferisce alla maggior parte delle armi ideate da Michail Timofeevič Kalašnikov (fonte wilkipedia )

domenica 14 febbraio 2010

migranti 1.

NG Aprile 2008.

“Said guarda fra le stelle e segue le linee tracciate fra i punti lucenti.
Granelli luminosi di sabbia che il sole ha incendiato e fatto volare lontano, sulla sua testa. Gli hanno parlato di palle di fuoco lontane, forse già spente anche se la loro luce è ancora inspiegabilmente visibile. Fantasmi. Ripensa alla missione. Al pranzo della domenica. Il suo stomaco borbotta dentro le luci ovattate.
Galleggiano nell’aria e solo il suo sonno può ricondurle a terra.
Non vuole dormire. Può guardare le stelle per ore aspettando che la ragnatela di linee vada in frantumi. La mappa dove si è nascosto e che osserva dal di dentro. Di notte fa cadere qualcosa in ogni spicchio di cielo. Tra i fantasmi, convinto che i suoi segreti tengano viva la luce.
L’aria è gelata. Il deserto silenzioso e ostile. Si impronta nel corpo caldo di sua madre, come se volesse tornare dentro di lei. Sua sorella borbotta nel sonno, avvolta nel marsupio di stoffa. La guarda con invidia. Ha la bocca impiastricciata di latte e l’espressione beata di chi si è sfamato.
Qualcuno canta in hausa, la lingua della sua terra. Tende l’orecchio verso le parole. Conosce quella canzone, anche se non capisce tutto. Nyame, il creatore, piange lacrime dolci sulla terra. Laghi, fiumi e anche il mare nascono dal suo dolore. Adu Ogynae, il primo uomo, corre cercando le lacrime perché solo esse possono indicargli la via. Quando avevano lasciato la loro casa, sei giorni prima ma gli sembrano solo pochi minuti, anche lui aveva pensato che dovevano trovare la via. Il modo di dimenticare tutto quel sangue e la paura di scomparire. Non voleva svegliarsi senza un braccio o la testa o con la gola tagliata. Erano passati di casa in casa ed avevano massacrato tutti. Anche gli animali. Non si erano portati via neanche quelli. La piaga del suo piede li aveva risparmiati. La mamma aveva voluto portarlo per forza alla missione, dal dottore, ed adesso guarda con gratitudine la benda che gli serra la caviglia. Pensa che non la toglierà mai, anche se avevano dovuto tenerlo fermo in tre per stringerla bene. Erano tornati al villaggio senza parlarsi, lui chiuso nel suo risentimento, lei nella sua preoccupazione. Poi il silenzio aveva ingoiato tutto sigillando le loro bocche piene di sabbia, gli occhi spalancati che si rifiutavano di trasmettere le immagini al cervello. Se ne erano andati subito, barcollando fra i corpi che cominciavano a puzzare. Poche cose chiuse dentro una sacca di tela. Aveva chiesto a sua madre perché il loro bue era così magro, ora che era morto. E lei aveva risposto che non aveva più sangue. Che se l’erano bevuto tutto”.

domenica 31 gennaio 2010

Prima Comunione

Domenica mattina. Fiamma azzurra. Profumo di caffè. Chiudo gli occhi, lo sento meglio. Più forte. Riempie la moka. Spengo il fornello. Buio. Rimango lì, in piedi, le mani sul banco d'acciaio. Il borbottare della macchinetta si strozza in un ultimo sibilo. Buio e silenzio di nuovo. Prendo la presina con i fiori bianchi, bruciati dalla mia sbadataggine. Verso il caffè nella tazzina. Sporco piattino e fornelli. Pulisco con la magnolia fiorita e mi brucio la nocca dell'indice. Mi verrà una galla. Guardo la scatola gialla della pomata, sulla mensola, proprio all'altezza della mia mente. Passo il dito sulle labbra. Sento la pelle ruvida là dove mi sono bruciato. Guardo fuori, attraverso la porta finestra che comincia a mostrare il giardino. Il gatto, in piedi, ruota le zampe superiori sul vetro. Fa un rumore buffo, come una farfalla chiusa nel cavo delle mani. Apro uno spiraglio. Infila la testa dentro. Poi anche le spalle. Penso a quel pomeriggio di giugno. La messa interminabile, tutte quelle lasagne sulla tovaglia macchiata di vino. Fuori, il sole sulla testa e i binari sotto le suole. C'eravamo arrampicati sulla massicciata coperta di acacie, le mani bucate dalle spine dure. La testa del gatto si affacciava dalla vetta, adagiata su un sasso scuro. Ci fissava ad occhi aperti. Gli occhi pieni di mosche. Arrivammo in cima. Si era strappato la camicia bianca per starmi dietro. Io ero un sacco di ossa e tendini e salivo molto più facilmente. Ricordo le sue mani strette alle ginocchia. La sua smorfia mentre cercava l'aria. Il suo stupore di fronte a ciò che rimaneva del gatto. Strappo il coperchio della scatoletta e gli do da mangiare. Si struscia contro le mie gambe. La mia casa è proprio dietro la ferrovia. Sotto la massicciata. Mi chiedo quanto può vivere un gatto. Magari quello è un discendente dell'altro, di quello diviso in due sui binari. Ho smesso di fumare da un anno. Il profumo del caffè mi fa ancora stare male. Le magnolie riempiono la stanza del suo profumo. Come se fosse appena andato via. Il gatto si attacca con le unghie al pigiama, sotto la rotula. Lo sollevo e gli gratto la testa, in mezzo alle orecchie. Vedo le mosche entrargli nel cervello. Le sue zampe legate strette. Il filo bianco che mia madre usava per legare la carne. Sento le sue urla dentro la mia testa. Il gatto fa le fusa fra le mie braccia. Lo appoggio a terra e riempio la ciotola d'acqua. Ascolto il rumore della sua lingua. Ricordo la sua voce. Il sapore che aveva. La sua lingua. Come la spingeva dentro di me, quasi stesse cercando qualcosa. Acqua. Miele. L'unica cosa che avrebbe potuto tenerlo in vita. Dentro di me non c'era, non l'ha trovata. Fuori, in giardino, la luce svela come niente sia là dove dovrebbe essere. L'albero secco scarabocchia la parete bianca, e sento lo stridere delle sue unghie. La disperazione di chi è sepolto prima del tempo. La scoperta della propria inadeguatezza, il momento in cui ti fanno sedere in panchina. Nessuno escluso. E questo può essere abbastanza. Annuso la scatoletta vuota. L'odore della carne mi disgusta e mi fa passare la voglia di fumare. Getto la scatoletta nella pattumiera, insieme ai resti della pizza che abbiamo mangiato ieri sera. La scatola devo piegarla in due perché non ci sta. Il gatto scivola fuori allungandosi fra le mie gambe. Chiudo, riempio di nuovo la tazzina con ciò che resta della caffettiera. Mi siedo. Ascolto le sue urla. Sono solo un borbottio compresso che sale su per le scale, dalla cantina. Mi devo affrettare. La chiesa è in fondo alla strada.

mercoledì 6 gennaio 2010

girasole (migranti 7)

Giovanni guardò la televisione.
-…….sbarchi si susseguono su questo tratto di costa da una…..
Li vide. Stipati come sardine, occhi troppo grandi nelle teste scavate. Nere. Lo sguardo opaco, percorso solo da qualche sorriso. Come se guardassero senza vedere, dopo giorni e giorni di mare aperto e l’acqua avesse sepolto i pensieri. E ciò nonostante qualcosa pulsasse sotto il freddo e la fame.
-……non si conosce esattamente il porto di…….le loro condizioni appaiono…..
Beccheggiavano silenziosi, circondati dalle motovedette lucide come serpenti, fredde ed efficienti. Sporchi, con le barbe impastate di sale e moccico, e comunque fieri nei loro colori gettati sulle spalle magre. Nascosti l’uno nell’altro per darsi un po’ di calore. Ondeggiavano come un unico essere mentre le onde si infilavano ritmiche sotto la chiglia scrostata.
-………tutto lascia supporre che ……..e si siano allontanati prima…..
Cominciò a contare. Non si vedeva neppure la barca da quanti erano. Brulicavano ovunque in piedi l’uno accanto all’altro, i bambini più piccoli avvinghiati alle braccia dure delle donne. Gli uomini disposti attorno, come se volessero proteggerli.
Pensò ad un girasole. Un girasole di carne sbocciato in mezzo al mare. Chi erano? Da dove venivano?
-……la nostra marina è intervenuta il più……
Poi l’occhio della televisione si posò un po’ più avanti, alle loro spalle. C’era un’altra barca sotto il pelo dell’acqua, appena oltre la sottile linea che separa la normalità dall’orrore. Sdraiata su un fianco, come se volesse dormire un po’ e si fosse tirata una coperta di mare addosso, per ripararsi dal freddo. Con il suo assurdo pigiama a strisce bianche azzurre e quella marca sconosciuta stampata sul corpo: F-147. Si inabissava lentamente mentre gonfi chicchi di girasole delle più differenti misure e colori le facevano da ghirlanda.

Luisa sentì le sue urla e si svegliò. Era infagottata in una coperta di lana massiccia che le grattava la faccia. C'era una sedia e si tirò su a sedere. Ansimava da far paura ma non aveva più freddo. Sbirciò sotto il tessuto ruvido e scoprì di essere vestita. Colorati indumenti profumati la riscaldavano e non se ne sorprese. La spiaggia era vuota, solo tracce confuse sulla sabbia intorno a lei. Chiuse gli occhi ripensò al sogno che la accompagnava da settimane.
All’alba, su una spiaggia proprio come quella, una donna alta e nera, magra e sensuale come se il suo corpo fosse stato la spina dorsale della notte appena trascorsa, usciva dall’acqua e si sedeva al suo fianco. Era perfettamente asciutta e la fissava senza parlare con occhi fatti di stelle. Un’altra, con un bambino legato in vita ed afferrato al suo sorriso, sbucava dalla sabbia accanto a lei. Cantava. Lei non capiva in quale lingua ma capiva le parole. Amore, vita, speranza: lacrime di un dio antico che modellavano il mondo. Era una canzone che faceva bene quando scendeva dentro di lei e la riempiva. Il bambino si liberava e in un attimo era in braccio a suo padre che proprio in quel momento usciva dal mare. Era uno dei ragazzi che l’avevano salvata, lo riconobbe subito e le sembrò normale.
L’altro, più giovane, arrivava alle sue spalle tenendo per mano una vecchia regina che camminava con il bastone. Aveva gambe lunghissime e sottili come quelle di una cicogna e la pelle fresca come un bacio a lungo desiderato e mai avuto, capace di far battere il cuore. Le sue bellissime figlie, ornate di gioielli lisci e lucenti, la seguivano da vicino portando ceste ripiene di cibo speziato. E poi altri, a decine, di tutte le età, con la pelle color dell’ebano, sbucavano dall’acqua senza far rumore. Tutti indossavano vesti sgargianti, come quelle che lei indossava adesso, che mettevano allegria a guardarle. La vecchia aveva cominciato a parlare, all’improvviso.
- I tuoi colori sono morti. Chi li ha uccisi?
- Non sai più ridere, disse l’uomo che teneva in braccio suo figlio.
- Non sai più piangere, continuò il bambino.
Chi l’avesse osservati dall’alto avrebbe visto soltanto un bellissimo girasole.

venerdì 1 gennaio 2010

nel quadro

Ho visto il quadro e ho avuto paura.
Se ne stava davanti a me seduto, la faccia tranquilla e le braccia abbandonate, senza ossa che le sostenessero. I polsi stretti dentro la camicia immacolata, le mani secche e bendate. Le unghie sporche di morchia, spezzate come se qualcuno avesse provato a strapparle via con le tenaglie. Ho voltato la faccia verso la finestra, ma la finestra non c'era. Dal mio letto la finestra dista tre passi e lo sguardo li percorre molto velocemente. Di solito ho il tempo di fare solo poche considerazioni, tipo sono vivo, mi scappa da pisciare, ho la nausea, dove sono finite le mie ciabatte. E' molto di più di quello di cui mi occupo per tutto il giorno.
Adesso la finestra non c'è e miei pensieri tendono altrove.
Sono nudo. Non ho sigarette e nessuna voglia di masturbarmi, nonostante mi senta stranamente eccitato. Ricordo che c'era una donna, le sue gambe lunghe intorno ai miei fianchi. Mi volto e l'uomo nel quadro mi fissa sfrontato. Con una certa malizia. Sa molto di più di quello che so io.
Mi alzo e scopro di avere i calzini e un preservativo che mi penzola dall'uccello, tipo quelle campane di stoffa colorata che mettono prima dei ponti sull'autostrada per farti vedere quanto vento tira. Agito un po' i fianchi e quello scivola ancora un po'. Quanto vento tira? Lo sfilo e mi accorgo che è vuoto. Non sono venuto. Lo srotolo completamente e mi chiedo chi cazzo può averci un cazzo di quelle dimensioni. Lo annodo stretto e strizzo l'aria verso la punta. Non è bucato e comunque non ero venuto. Magari non ho nemmeno scopato. Non c'era nessuna donna con le gambe lunghe e i capelli corti che andavano su e giù all'altezza del mio ombelico. No, forse c'era. Comunque va bene lo stesso. Vale uguale. La prima volta che ti ha sorriso. Il bagno la notte, senza le stelle. Vale lo stesso. Tiro il preservativo con tutte le forze. Non succede nulla. Non mi aspettavo nulla. Non la fine delle trasmissioni, né che qualcuno si prendesse l’impegno di chiudere le porte della città e di proteggere la notte. Da quando sono nato non mi è riuscito sentirmi una volta solo.
Attraverso la stanza e spalanco la porta del bagno. Mi ritrovo in una cucina asettica e priva di odori, coltelli giapponesi perfettamente allineati sul bancone d’acciaio. Mia madre prepara una zuppa di pesce che fuma dentro la pentola. Pesca una testa di muggine con una pinza lunga e sottile. La lecca e la sua espressione si fa più intensa, interrogativa. Capisco che si sforza, che tenta di ricordare il sapore che dovrebbe avere. Ributta la testa nel brodo e mi sorride. Vedo chiaramente che i suoi occhi sono bolliti, bianchi come quelli del muggine.
Mi sveglio e guardo il quadro.
L’uomo ha un espressione felice. Non che sorrida, anche perché le mani devono fargli un male cane. Sanguina. Il sangue forma piccole gocce e poi rotola giù sulla tela. Mi volto verso la finestra. La luce bagna la statua della Madonna con l’acqua di Lourdes. Allungo la mano, convinto di non poterci arrivare. La stappo e ne bevo più di mezza. Sento le gocce rotolare giù per la gola, come lacrime calde e vischiose. Per prendere la Madonna mi sono allungato sul suo corpo caldo e ne ho sentito l’odore. Con le mani seguo la curva dei suoi seni. Geme nel sonno. Parla in una lingua che non conosco. La bacio alla attaccatura dei capelli, corti. Passo la mia lingua sulla sua pelle bianca, contropelo, tanto che saltello sul suo corpo come se avessi infilato un dito dentro una presa elettrica. Ricordo di averlo fatto davvero e provo lo stesso formicolio nelle mani, sulla schiena, dentro il cervello. Le lecco la schiena partendo dall’attaccatura delle natiche ma lei si riaddormenta e russa. Penso di scoparla così, mentre dorme. Forse si sveglia e mi guarda negli occhi e mi racconta la sua vita. Io capisco benissimo il russo perché ho bevuto l’acqua di Lourdes.
Buio pesto. Mi sono addormentato sul divano. La televisione parla di bombe al fosforo. Le associo subito a quelle intelligenti. Un uomo tiene il cadavere di un bambino tra le sue braccia. Comincio a piangere. Il quadro che ho appeso al muro la sera prima è sempre là, con la sua espressione serena. Neutra. Ha le mani fasciate e sbucano dita lunghe e affusolate. Le sue unghie sono nere e rotte, come se avesse scavato nella terra una tomba.
Afferro la bottiglia vuota e bevo, fra poco sarà giorno e devo andare a lavorare. Devo lavarmi. Ho scavato tutta la notte e puzzo di sudore e terra marcia. Le trincee sono finite e adesso posso aspettare che arrivino. Ho le mani gelate e anche il mio respiro si ghiaccia e casca a terra.
Tento di scrivere una lettera ma non è facile con le mani bendate.
-Carissimo Padre, spero che Voi stiate bene. Qui fa molto freddo e………
Guardo la baionetta. Dovrò usarla. Non posso certo restare qui a farmi uccidere. Ci sono ottimi motivi per tagliargli la gola. Lui farebbe lo stesso con me. Lo farà senz’altro. Sentirò il rumore della lama che attraversa il tessuto pesante e quel lieve esitare della punta sulla pelle. Poi affonderò deciso nelle budella risalendo con forza verso il cuore. Vedrò il sangue colargli dalla bocca e sarò contento.
- .....Vi ricordo nelle mie preghiere. Spero che anche Voi facciate lo stesso……
Poco dopo mi becco un missile sulla testa e la casa esplode spargendo il mio corpo da tutte le parti. Non sento alcun tipo di dolore. Il quadro rimane miracolosamente intatto.
I miei piedi girano fra le macerie cercando le scarpe. Le trovano e se le infilano. Le mie gambe indossano i pantaloni, il mio culo le mutande. Il mio tronco la camicia. Le mie braccia la giacca. Le mie mani afferrano borsa e cappello. La testa non la trovo da nessuna parte.
Ho comprato il quadro al mercatino del sabato, nel quartiere nord della città. Non so perché.
Il soggetto non è particolarmente invitante e non capisco assolutamente nulla di arte. In più non ho percepito nessuna emozione particolare quando lo ho visto confuso tra una massa di scialbi paesaggi e nature morte. Non ho chiesto neppure il prezzo. Non lo ricordo affatto. Non penso costasse granché. Il venditore mi è sembrato particolarmente soddisfatto. Ho preteso che lo incartasse. A dire il vero ho chiesto:
-Lo può bendare?
Adesso capisco che non volevo che il quadro vedesse la strada per andare a casa.
Durante il tragitto mi sono spesso guardato alle spalle, certo che qualcuno mi stesse seguendo.
All’ingresso della metropolitana una donna in abiti troppo colorati ha cercato di vendermi un mazzo di fiori. Ho capito subito che era una di loro. Ho risposto con gentilezza e le ho fatto anche un’offerta generosa. Teneva una bambina per mano. La bambina aveva una piccola collana d’oro con dei ciondoli rossi. La donna insisteva per darmi i fiori ma li ho rifiutati.
Sulle scale mobili ho tenuto la destra, neutro. Passanti scendevano le scale di fretta, urtando la cornice voluminosa del quadro. Imprecavano.
Finalmente sono arrivato alla mia fermata. Sono sceso un attimo prima che le porte si chiudessero e ho visto le loro facce stupite al finestrino mentre si allontanavano.
Sono uscito fuori. Il cielo era ancora scuro. L’involucro che conteneva il quadro si era tutto strappato e si infilava come uno strascico giù per le scale della metropolitana. Sentivo che qualcosa tirava dal fondo. Ho urlato chiedendo aiuto. Non potevo rischiare che mi vedessero. Ho cominciato a correre verso casa e nello stesso momento è cominciato a piovere. La scia di carta grigia si perdeva dietro di me senza che io potessi fare nulla per fermarla. Mi avrebbero trovato ovunque.
Ho gettato il quadro per andare più forte. Sentivo che l’unica salvezza era la velocità.: so che ho un buono spunto ma nessuna resistenza. Se non li semino subito sarò perduto.
Il quadro mi ha sorpassato con facilità. Ha gambe robuste che spuntano dalla cornice. Mi ha aspettato dietro l’angolo. Non conosce la strada.
Mi sveglio di soprassalto mentre suona il telefono. Capisco subito che sta morendo e comincio a tremare. Non riesco a vestirmi. Il freddo mi terremota il corpo. Le mie mani rimbalzano sugli oggetti senza riuscire ad afferrarli. Devo andare. Lo vestirò subito dopo che sarà morto, prima che sia troppo tardi. So che vorrò farlo io, senza che altri mettano le loro mani su di lui.
Poi un missile mi centra in pieno e sparpaglia il mio corpo ovunque. Ho le scarpe ma non trovo più i miei piedi. Il telefono squilla di nuovo e non trovo le mie mani per poter rispondere. Dopo sette squilli parte la segreteria:
-Non sono in casa, lasciate un messaggio dopo il segnale e vi richiamerò.
Beep….
-Dove cazzo sei? Sto morendo.
Devo fare in fretta. La velocità è essenziale. So che non arriverò mai in tempo. Ho un buono spunto ma pochissima resistenza. L’uomo nel quadro trattiene il respiro. Ha pochi capelli, me ne accorgo solo adesso. Vedo i capelli staccarsi e depositarsi al suolo senza far rumore, come la neve. Prendo la scopa e la cassetta e comincio a spazzare la stanza. Riempio sacchi e sacchi di roba che non serve a nulla e li metto sul pianerottolo fuori delle scale. Adesso la stanza è vuota ed è rimasto solo il quadro. I capelli coprono completamente il parquet. Più li spazzo e più crescono sul fondo. Mi immergo e tolgo il tappo alla stanza. Scendo attraverso il tubo e i capelli mi entrano in bocca, soffocandomi. Sputo un lungo filo di preservativi annodati, le mie mani lo afferrano e spariscono giù per le scale. Cerco di non essere trascinato via.
Sono in cucina. Il quadro è seduto accanto a me e mi guarda. Un uomo passa fuori sul marciapiede, si ferma e fissa il muro bianco dove c’era la finestra. Non lo vedo ma so esattamente dove si è fermato e quanti anni ha. Indossa la solita giacca da cinque anni, si è appena sposato e avrà due figlie brutte che non troveranno mai marito e non se lo perdonerà facilmente. So che è colpa mia, ma non me ne frega nulla. Sua moglie scapperà con il bidello della scuola dove insegna mentre lui si trova in gita con gli alunni della quinta. Ci sono anch’io in quella foto del salotto buono. Tra la moglie, le figlie, la gondola di Venezia e il mandolino a carica. Spostare la finestra senza avvertirlo è stata una pessima idea. Non ricordo più le sue parole. Mi ha ingannato.
Mi sveglio e il quadro non c’è. Allungo una mano sotto il lenzuolo e scopro di avere un erezione. Alzo le coperte e vedo che il quadro si è coricato accanto a me e che ho in mano il suo uccello. L’uomo mi guarda con la solita espressione. Neutra. Comincio a menargli l’uccello, sempre più veloce. Ho capelli biondi e corti, e lunghe gambe che cingono i suoi fianchi. Mi ha baciato il culo mentre facevo finta di dormire. Gli urlo in una lingua che non conosco ma lui non ha nessuna reazione. Mi infilo un preservativo in bocca e glielo srotolo sull’uccello mentre lo ingoio. Lo guardo mentre vado su e giù all’altezza del suo ombelico e penso che dopo gli racconterò la storia della mia vita.