domenica 14 febbraio 2010

migranti 1.

NG Aprile 2008.

“Said guarda fra le stelle e segue le linee tracciate fra i punti lucenti.
Granelli luminosi di sabbia che il sole ha incendiato e fatto volare lontano, sulla sua testa. Gli hanno parlato di palle di fuoco lontane, forse già spente anche se la loro luce è ancora inspiegabilmente visibile. Fantasmi. Ripensa alla missione. Al pranzo della domenica. Il suo stomaco borbotta dentro le luci ovattate.
Galleggiano nell’aria e solo il suo sonno può ricondurle a terra.
Non vuole dormire. Può guardare le stelle per ore aspettando che la ragnatela di linee vada in frantumi. La mappa dove si è nascosto e che osserva dal di dentro. Di notte fa cadere qualcosa in ogni spicchio di cielo. Tra i fantasmi, convinto che i suoi segreti tengano viva la luce.
L’aria è gelata. Il deserto silenzioso e ostile. Si impronta nel corpo caldo di sua madre, come se volesse tornare dentro di lei. Sua sorella borbotta nel sonno, avvolta nel marsupio di stoffa. La guarda con invidia. Ha la bocca impiastricciata di latte e l’espressione beata di chi si è sfamato.
Qualcuno canta in hausa, la lingua della sua terra. Tende l’orecchio verso le parole. Conosce quella canzone, anche se non capisce tutto. Nyame, il creatore, piange lacrime dolci sulla terra. Laghi, fiumi e anche il mare nascono dal suo dolore. Adu Ogynae, il primo uomo, corre cercando le lacrime perché solo esse possono indicargli la via. Quando avevano lasciato la loro casa, sei giorni prima ma gli sembrano solo pochi minuti, anche lui aveva pensato che dovevano trovare la via. Il modo di dimenticare tutto quel sangue e la paura di scomparire. Non voleva svegliarsi senza un braccio o la testa o con la gola tagliata. Erano passati di casa in casa ed avevano massacrato tutti. Anche gli animali. Non si erano portati via neanche quelli. La piaga del suo piede li aveva risparmiati. La mamma aveva voluto portarlo per forza alla missione, dal dottore, ed adesso guarda con gratitudine la benda che gli serra la caviglia. Pensa che non la toglierà mai, anche se avevano dovuto tenerlo fermo in tre per stringerla bene. Erano tornati al villaggio senza parlarsi, lui chiuso nel suo risentimento, lei nella sua preoccupazione. Poi il silenzio aveva ingoiato tutto sigillando le loro bocche piene di sabbia, gli occhi spalancati che si rifiutavano di trasmettere le immagini al cervello. Se ne erano andati subito, barcollando fra i corpi che cominciavano a puzzare. Poche cose chiuse dentro una sacca di tela. Aveva chiesto a sua madre perché il loro bue era così magro, ora che era morto. E lei aveva risposto che non aveva più sangue. Che se l’erano bevuto tutto”.

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