domenica 31 gennaio 2010

Prima Comunione

Domenica mattina. Fiamma azzurra. Profumo di caffè. Chiudo gli occhi, lo sento meglio. Più forte. Riempie la moka. Spengo il fornello. Buio. Rimango lì, in piedi, le mani sul banco d'acciaio. Il borbottare della macchinetta si strozza in un ultimo sibilo. Buio e silenzio di nuovo. Prendo la presina con i fiori bianchi, bruciati dalla mia sbadataggine. Verso il caffè nella tazzina. Sporco piattino e fornelli. Pulisco con la magnolia fiorita e mi brucio la nocca dell'indice. Mi verrà una galla. Guardo la scatola gialla della pomata, sulla mensola, proprio all'altezza della mia mente. Passo il dito sulle labbra. Sento la pelle ruvida là dove mi sono bruciato. Guardo fuori, attraverso la porta finestra che comincia a mostrare il giardino. Il gatto, in piedi, ruota le zampe superiori sul vetro. Fa un rumore buffo, come una farfalla chiusa nel cavo delle mani. Apro uno spiraglio. Infila la testa dentro. Poi anche le spalle. Penso a quel pomeriggio di giugno. La messa interminabile, tutte quelle lasagne sulla tovaglia macchiata di vino. Fuori, il sole sulla testa e i binari sotto le suole. C'eravamo arrampicati sulla massicciata coperta di acacie, le mani bucate dalle spine dure. La testa del gatto si affacciava dalla vetta, adagiata su un sasso scuro. Ci fissava ad occhi aperti. Gli occhi pieni di mosche. Arrivammo in cima. Si era strappato la camicia bianca per starmi dietro. Io ero un sacco di ossa e tendini e salivo molto più facilmente. Ricordo le sue mani strette alle ginocchia. La sua smorfia mentre cercava l'aria. Il suo stupore di fronte a ciò che rimaneva del gatto. Strappo il coperchio della scatoletta e gli do da mangiare. Si struscia contro le mie gambe. La mia casa è proprio dietro la ferrovia. Sotto la massicciata. Mi chiedo quanto può vivere un gatto. Magari quello è un discendente dell'altro, di quello diviso in due sui binari. Ho smesso di fumare da un anno. Il profumo del caffè mi fa ancora stare male. Le magnolie riempiono la stanza del suo profumo. Come se fosse appena andato via. Il gatto si attacca con le unghie al pigiama, sotto la rotula. Lo sollevo e gli gratto la testa, in mezzo alle orecchie. Vedo le mosche entrargli nel cervello. Le sue zampe legate strette. Il filo bianco che mia madre usava per legare la carne. Sento le sue urla dentro la mia testa. Il gatto fa le fusa fra le mie braccia. Lo appoggio a terra e riempio la ciotola d'acqua. Ascolto il rumore della sua lingua. Ricordo la sua voce. Il sapore che aveva. La sua lingua. Come la spingeva dentro di me, quasi stesse cercando qualcosa. Acqua. Miele. L'unica cosa che avrebbe potuto tenerlo in vita. Dentro di me non c'era, non l'ha trovata. Fuori, in giardino, la luce svela come niente sia là dove dovrebbe essere. L'albero secco scarabocchia la parete bianca, e sento lo stridere delle sue unghie. La disperazione di chi è sepolto prima del tempo. La scoperta della propria inadeguatezza, il momento in cui ti fanno sedere in panchina. Nessuno escluso. E questo può essere abbastanza. Annuso la scatoletta vuota. L'odore della carne mi disgusta e mi fa passare la voglia di fumare. Getto la scatoletta nella pattumiera, insieme ai resti della pizza che abbiamo mangiato ieri sera. La scatola devo piegarla in due perché non ci sta. Il gatto scivola fuori allungandosi fra le mie gambe. Chiudo, riempio di nuovo la tazzina con ciò che resta della caffettiera. Mi siedo. Ascolto le sue urla. Sono solo un borbottio compresso che sale su per le scale, dalla cantina. Mi devo affrettare. La chiesa è in fondo alla strada.

mercoledì 6 gennaio 2010

girasole (migranti 7)

Giovanni guardò la televisione.
-…….sbarchi si susseguono su questo tratto di costa da una…..
Li vide. Stipati come sardine, occhi troppo grandi nelle teste scavate. Nere. Lo sguardo opaco, percorso solo da qualche sorriso. Come se guardassero senza vedere, dopo giorni e giorni di mare aperto e l’acqua avesse sepolto i pensieri. E ciò nonostante qualcosa pulsasse sotto il freddo e la fame.
-……non si conosce esattamente il porto di…….le loro condizioni appaiono…..
Beccheggiavano silenziosi, circondati dalle motovedette lucide come serpenti, fredde ed efficienti. Sporchi, con le barbe impastate di sale e moccico, e comunque fieri nei loro colori gettati sulle spalle magre. Nascosti l’uno nell’altro per darsi un po’ di calore. Ondeggiavano come un unico essere mentre le onde si infilavano ritmiche sotto la chiglia scrostata.
-………tutto lascia supporre che ……..e si siano allontanati prima…..
Cominciò a contare. Non si vedeva neppure la barca da quanti erano. Brulicavano ovunque in piedi l’uno accanto all’altro, i bambini più piccoli avvinghiati alle braccia dure delle donne. Gli uomini disposti attorno, come se volessero proteggerli.
Pensò ad un girasole. Un girasole di carne sbocciato in mezzo al mare. Chi erano? Da dove venivano?
-……la nostra marina è intervenuta il più……
Poi l’occhio della televisione si posò un po’ più avanti, alle loro spalle. C’era un’altra barca sotto il pelo dell’acqua, appena oltre la sottile linea che separa la normalità dall’orrore. Sdraiata su un fianco, come se volesse dormire un po’ e si fosse tirata una coperta di mare addosso, per ripararsi dal freddo. Con il suo assurdo pigiama a strisce bianche azzurre e quella marca sconosciuta stampata sul corpo: F-147. Si inabissava lentamente mentre gonfi chicchi di girasole delle più differenti misure e colori le facevano da ghirlanda.

Luisa sentì le sue urla e si svegliò. Era infagottata in una coperta di lana massiccia che le grattava la faccia. C'era una sedia e si tirò su a sedere. Ansimava da far paura ma non aveva più freddo. Sbirciò sotto il tessuto ruvido e scoprì di essere vestita. Colorati indumenti profumati la riscaldavano e non se ne sorprese. La spiaggia era vuota, solo tracce confuse sulla sabbia intorno a lei. Chiuse gli occhi ripensò al sogno che la accompagnava da settimane.
All’alba, su una spiaggia proprio come quella, una donna alta e nera, magra e sensuale come se il suo corpo fosse stato la spina dorsale della notte appena trascorsa, usciva dall’acqua e si sedeva al suo fianco. Era perfettamente asciutta e la fissava senza parlare con occhi fatti di stelle. Un’altra, con un bambino legato in vita ed afferrato al suo sorriso, sbucava dalla sabbia accanto a lei. Cantava. Lei non capiva in quale lingua ma capiva le parole. Amore, vita, speranza: lacrime di un dio antico che modellavano il mondo. Era una canzone che faceva bene quando scendeva dentro di lei e la riempiva. Il bambino si liberava e in un attimo era in braccio a suo padre che proprio in quel momento usciva dal mare. Era uno dei ragazzi che l’avevano salvata, lo riconobbe subito e le sembrò normale.
L’altro, più giovane, arrivava alle sue spalle tenendo per mano una vecchia regina che camminava con il bastone. Aveva gambe lunghissime e sottili come quelle di una cicogna e la pelle fresca come un bacio a lungo desiderato e mai avuto, capace di far battere il cuore. Le sue bellissime figlie, ornate di gioielli lisci e lucenti, la seguivano da vicino portando ceste ripiene di cibo speziato. E poi altri, a decine, di tutte le età, con la pelle color dell’ebano, sbucavano dall’acqua senza far rumore. Tutti indossavano vesti sgargianti, come quelle che lei indossava adesso, che mettevano allegria a guardarle. La vecchia aveva cominciato a parlare, all’improvviso.
- I tuoi colori sono morti. Chi li ha uccisi?
- Non sai più ridere, disse l’uomo che teneva in braccio suo figlio.
- Non sai più piangere, continuò il bambino.
Chi l’avesse osservati dall’alto avrebbe visto soltanto un bellissimo girasole.

venerdì 1 gennaio 2010

nel quadro

Ho visto il quadro e ho avuto paura.
Se ne stava davanti a me seduto, la faccia tranquilla e le braccia abbandonate, senza ossa che le sostenessero. I polsi stretti dentro la camicia immacolata, le mani secche e bendate. Le unghie sporche di morchia, spezzate come se qualcuno avesse provato a strapparle via con le tenaglie. Ho voltato la faccia verso la finestra, ma la finestra non c'era. Dal mio letto la finestra dista tre passi e lo sguardo li percorre molto velocemente. Di solito ho il tempo di fare solo poche considerazioni, tipo sono vivo, mi scappa da pisciare, ho la nausea, dove sono finite le mie ciabatte. E' molto di più di quello di cui mi occupo per tutto il giorno.
Adesso la finestra non c'è e miei pensieri tendono altrove.
Sono nudo. Non ho sigarette e nessuna voglia di masturbarmi, nonostante mi senta stranamente eccitato. Ricordo che c'era una donna, le sue gambe lunghe intorno ai miei fianchi. Mi volto e l'uomo nel quadro mi fissa sfrontato. Con una certa malizia. Sa molto di più di quello che so io.
Mi alzo e scopro di avere i calzini e un preservativo che mi penzola dall'uccello, tipo quelle campane di stoffa colorata che mettono prima dei ponti sull'autostrada per farti vedere quanto vento tira. Agito un po' i fianchi e quello scivola ancora un po'. Quanto vento tira? Lo sfilo e mi accorgo che è vuoto. Non sono venuto. Lo srotolo completamente e mi chiedo chi cazzo può averci un cazzo di quelle dimensioni. Lo annodo stretto e strizzo l'aria verso la punta. Non è bucato e comunque non ero venuto. Magari non ho nemmeno scopato. Non c'era nessuna donna con le gambe lunghe e i capelli corti che andavano su e giù all'altezza del mio ombelico. No, forse c'era. Comunque va bene lo stesso. Vale uguale. La prima volta che ti ha sorriso. Il bagno la notte, senza le stelle. Vale lo stesso. Tiro il preservativo con tutte le forze. Non succede nulla. Non mi aspettavo nulla. Non la fine delle trasmissioni, né che qualcuno si prendesse l’impegno di chiudere le porte della città e di proteggere la notte. Da quando sono nato non mi è riuscito sentirmi una volta solo.
Attraverso la stanza e spalanco la porta del bagno. Mi ritrovo in una cucina asettica e priva di odori, coltelli giapponesi perfettamente allineati sul bancone d’acciaio. Mia madre prepara una zuppa di pesce che fuma dentro la pentola. Pesca una testa di muggine con una pinza lunga e sottile. La lecca e la sua espressione si fa più intensa, interrogativa. Capisco che si sforza, che tenta di ricordare il sapore che dovrebbe avere. Ributta la testa nel brodo e mi sorride. Vedo chiaramente che i suoi occhi sono bolliti, bianchi come quelli del muggine.
Mi sveglio e guardo il quadro.
L’uomo ha un espressione felice. Non che sorrida, anche perché le mani devono fargli un male cane. Sanguina. Il sangue forma piccole gocce e poi rotola giù sulla tela. Mi volto verso la finestra. La luce bagna la statua della Madonna con l’acqua di Lourdes. Allungo la mano, convinto di non poterci arrivare. La stappo e ne bevo più di mezza. Sento le gocce rotolare giù per la gola, come lacrime calde e vischiose. Per prendere la Madonna mi sono allungato sul suo corpo caldo e ne ho sentito l’odore. Con le mani seguo la curva dei suoi seni. Geme nel sonno. Parla in una lingua che non conosco. La bacio alla attaccatura dei capelli, corti. Passo la mia lingua sulla sua pelle bianca, contropelo, tanto che saltello sul suo corpo come se avessi infilato un dito dentro una presa elettrica. Ricordo di averlo fatto davvero e provo lo stesso formicolio nelle mani, sulla schiena, dentro il cervello. Le lecco la schiena partendo dall’attaccatura delle natiche ma lei si riaddormenta e russa. Penso di scoparla così, mentre dorme. Forse si sveglia e mi guarda negli occhi e mi racconta la sua vita. Io capisco benissimo il russo perché ho bevuto l’acqua di Lourdes.
Buio pesto. Mi sono addormentato sul divano. La televisione parla di bombe al fosforo. Le associo subito a quelle intelligenti. Un uomo tiene il cadavere di un bambino tra le sue braccia. Comincio a piangere. Il quadro che ho appeso al muro la sera prima è sempre là, con la sua espressione serena. Neutra. Ha le mani fasciate e sbucano dita lunghe e affusolate. Le sue unghie sono nere e rotte, come se avesse scavato nella terra una tomba.
Afferro la bottiglia vuota e bevo, fra poco sarà giorno e devo andare a lavorare. Devo lavarmi. Ho scavato tutta la notte e puzzo di sudore e terra marcia. Le trincee sono finite e adesso posso aspettare che arrivino. Ho le mani gelate e anche il mio respiro si ghiaccia e casca a terra.
Tento di scrivere una lettera ma non è facile con le mani bendate.
-Carissimo Padre, spero che Voi stiate bene. Qui fa molto freddo e………
Guardo la baionetta. Dovrò usarla. Non posso certo restare qui a farmi uccidere. Ci sono ottimi motivi per tagliargli la gola. Lui farebbe lo stesso con me. Lo farà senz’altro. Sentirò il rumore della lama che attraversa il tessuto pesante e quel lieve esitare della punta sulla pelle. Poi affonderò deciso nelle budella risalendo con forza verso il cuore. Vedrò il sangue colargli dalla bocca e sarò contento.
- .....Vi ricordo nelle mie preghiere. Spero che anche Voi facciate lo stesso……
Poco dopo mi becco un missile sulla testa e la casa esplode spargendo il mio corpo da tutte le parti. Non sento alcun tipo di dolore. Il quadro rimane miracolosamente intatto.
I miei piedi girano fra le macerie cercando le scarpe. Le trovano e se le infilano. Le mie gambe indossano i pantaloni, il mio culo le mutande. Il mio tronco la camicia. Le mie braccia la giacca. Le mie mani afferrano borsa e cappello. La testa non la trovo da nessuna parte.
Ho comprato il quadro al mercatino del sabato, nel quartiere nord della città. Non so perché.
Il soggetto non è particolarmente invitante e non capisco assolutamente nulla di arte. In più non ho percepito nessuna emozione particolare quando lo ho visto confuso tra una massa di scialbi paesaggi e nature morte. Non ho chiesto neppure il prezzo. Non lo ricordo affatto. Non penso costasse granché. Il venditore mi è sembrato particolarmente soddisfatto. Ho preteso che lo incartasse. A dire il vero ho chiesto:
-Lo può bendare?
Adesso capisco che non volevo che il quadro vedesse la strada per andare a casa.
Durante il tragitto mi sono spesso guardato alle spalle, certo che qualcuno mi stesse seguendo.
All’ingresso della metropolitana una donna in abiti troppo colorati ha cercato di vendermi un mazzo di fiori. Ho capito subito che era una di loro. Ho risposto con gentilezza e le ho fatto anche un’offerta generosa. Teneva una bambina per mano. La bambina aveva una piccola collana d’oro con dei ciondoli rossi. La donna insisteva per darmi i fiori ma li ho rifiutati.
Sulle scale mobili ho tenuto la destra, neutro. Passanti scendevano le scale di fretta, urtando la cornice voluminosa del quadro. Imprecavano.
Finalmente sono arrivato alla mia fermata. Sono sceso un attimo prima che le porte si chiudessero e ho visto le loro facce stupite al finestrino mentre si allontanavano.
Sono uscito fuori. Il cielo era ancora scuro. L’involucro che conteneva il quadro si era tutto strappato e si infilava come uno strascico giù per le scale della metropolitana. Sentivo che qualcosa tirava dal fondo. Ho urlato chiedendo aiuto. Non potevo rischiare che mi vedessero. Ho cominciato a correre verso casa e nello stesso momento è cominciato a piovere. La scia di carta grigia si perdeva dietro di me senza che io potessi fare nulla per fermarla. Mi avrebbero trovato ovunque.
Ho gettato il quadro per andare più forte. Sentivo che l’unica salvezza era la velocità.: so che ho un buono spunto ma nessuna resistenza. Se non li semino subito sarò perduto.
Il quadro mi ha sorpassato con facilità. Ha gambe robuste che spuntano dalla cornice. Mi ha aspettato dietro l’angolo. Non conosce la strada.
Mi sveglio di soprassalto mentre suona il telefono. Capisco subito che sta morendo e comincio a tremare. Non riesco a vestirmi. Il freddo mi terremota il corpo. Le mie mani rimbalzano sugli oggetti senza riuscire ad afferrarli. Devo andare. Lo vestirò subito dopo che sarà morto, prima che sia troppo tardi. So che vorrò farlo io, senza che altri mettano le loro mani su di lui.
Poi un missile mi centra in pieno e sparpaglia il mio corpo ovunque. Ho le scarpe ma non trovo più i miei piedi. Il telefono squilla di nuovo e non trovo le mie mani per poter rispondere. Dopo sette squilli parte la segreteria:
-Non sono in casa, lasciate un messaggio dopo il segnale e vi richiamerò.
Beep….
-Dove cazzo sei? Sto morendo.
Devo fare in fretta. La velocità è essenziale. So che non arriverò mai in tempo. Ho un buono spunto ma pochissima resistenza. L’uomo nel quadro trattiene il respiro. Ha pochi capelli, me ne accorgo solo adesso. Vedo i capelli staccarsi e depositarsi al suolo senza far rumore, come la neve. Prendo la scopa e la cassetta e comincio a spazzare la stanza. Riempio sacchi e sacchi di roba che non serve a nulla e li metto sul pianerottolo fuori delle scale. Adesso la stanza è vuota ed è rimasto solo il quadro. I capelli coprono completamente il parquet. Più li spazzo e più crescono sul fondo. Mi immergo e tolgo il tappo alla stanza. Scendo attraverso il tubo e i capelli mi entrano in bocca, soffocandomi. Sputo un lungo filo di preservativi annodati, le mie mani lo afferrano e spariscono giù per le scale. Cerco di non essere trascinato via.
Sono in cucina. Il quadro è seduto accanto a me e mi guarda. Un uomo passa fuori sul marciapiede, si ferma e fissa il muro bianco dove c’era la finestra. Non lo vedo ma so esattamente dove si è fermato e quanti anni ha. Indossa la solita giacca da cinque anni, si è appena sposato e avrà due figlie brutte che non troveranno mai marito e non se lo perdonerà facilmente. So che è colpa mia, ma non me ne frega nulla. Sua moglie scapperà con il bidello della scuola dove insegna mentre lui si trova in gita con gli alunni della quinta. Ci sono anch’io in quella foto del salotto buono. Tra la moglie, le figlie, la gondola di Venezia e il mandolino a carica. Spostare la finestra senza avvertirlo è stata una pessima idea. Non ricordo più le sue parole. Mi ha ingannato.
Mi sveglio e il quadro non c’è. Allungo una mano sotto il lenzuolo e scopro di avere un erezione. Alzo le coperte e vedo che il quadro si è coricato accanto a me e che ho in mano il suo uccello. L’uomo mi guarda con la solita espressione. Neutra. Comincio a menargli l’uccello, sempre più veloce. Ho capelli biondi e corti, e lunghe gambe che cingono i suoi fianchi. Mi ha baciato il culo mentre facevo finta di dormire. Gli urlo in una lingua che non conosco ma lui non ha nessuna reazione. Mi infilo un preservativo in bocca e glielo srotolo sull’uccello mentre lo ingoio. Lo guardo mentre vado su e giù all’altezza del suo ombelico e penso che dopo gli racconterò la storia della mia vita.