giovedì 27 maggio 2010

Prima Comunione/Controvento

Il vento freddo mi sostiene. Spingo la mia testa in avanti, dentro le sue braccia. Ho il cappotto di mio padre. Mi adatto alla sua forma. Modella il mio modo di camminare e dentro e fuori coincidono. Lo vedo riflesso nelle vetrine spente, sottrarsi al mio sguardo. Il bavero alzato. Le mani spinte in fondo alle tasche. Ora silenziose nel buio della loro tana. Serrate strette su manciate di spiccioli. Il marciapiede è deserto e mi precede la sua ombra sulla strada. Si allontana sballottata dalle raffiche gelide ed io immagino di cadere in avanti. Di schiacciarla. Faccio suonare le monete, come per avvertirla del mio ingombro. Come quando suonavo il campanello dorato durante la funzione, quando il prete si inginocchiava e io davo il segnale. Lo scampato pericolo. Allora percepivo solo un senso di sollievo, la sensazione di averla fatta franca. Dio era stato a un passo e , volendo, avrei potuto toccarlo. O lui toccare me. Adesso avrei saputo che parole dire. Niente saette, rilassatevi gente! Anche per oggi siete salvi e potete tornare alle vostre case. Forza alzatevi, tornate alla vostre tavole imbandite. Anche oggi non vi fulminerà il Signore. Magari vi farà stramazzare quel quarto di bue che rosola nei vostri forni o il vino cattivo che vi mangia il fegato. Ma il Signore no, quello avrà pietà di voi. Entro dalla porta laterale e d'istinto mi volto verso la panca sotto la statua di San Sebastiano. Infilzato come un pollo allo spiedo. Mi aspetto che la statua sanguini. La Chiesa è deserta e stranamente calda. O forse sono io. Forse sono io che come lui non sono morto. Ci hanno raccolto e si sono presi cura di noi. Nonostante tutto. Nonostante che non ci fosse nessuna ragione di farlo. Senza aspettarsi niente in cambio. Penso che così è l'amore e mi sembra impossibile. Ma è un mio limite. Capisco che è per questo motivo che mi capita di sbagliare strada. Adesso mi conosco meglio e so come comportarmi. Spengo il navigatore e mi prendo il tempo necessario. Accosto il furgone, e metto il motore al minimo. Sono paralizzato e non riesco ad aprire i finestrini. Spesso i miei passeggeri mi guardano con occhi sbarrati e a loro volta non riescono a parlare. Io mi aspetto di morire e mi incuriosisco di strane questioni. Chi mi troverà? Saprò già cattivo odore? I miei occhi saranno aperti o chiusi? Stranamente vorrei averli aperti e mi sforzo di non sbattere le ciglia. Conto quanto riesco a resistere. Uno, due, tre....le frecce si infilano nella mia carne ma non fanno male. Otto, nove, dieci.....sbatto le ciglia. Sono morto. Uno, due, tre, quattro.......sento il suono della sua guancia che graffia la mia e i mie piedi non toccano terra. Dieci, undici, dodici..... Sbatto di nuovo le ciglia. Lui ha occhi grandi capaci di guardare anche per me. Ed io sono stato i suoi occhi. Sono vivo anche per questo. Forse sto sognando e ne sono felice. Fin da piccolo ho avuto consapevolezza che niente è più reale dei sogni. Entro nel confessionale e mi chiudo la porta alle spalle. Mi inginocchio e come sempre ho la tentazione di sentirmi bene. A casa.








Andrea Mantegna
San Sebastiano