lunedì 8 novembre 2021

Residuo

Datemi i resti

e tenetevi quel che rimane 


Le sue mani che mi lanciano verso il cielo

e il suo abbraccio che segna i confini del mondo


Il tuo sorriso

la prima volta che hai visto il mare


Lo sguardo sulla montagna da fondovalle

e viceversa


I passi nel bosco che non sente nessuno

se non ci pianti l'orecchio

e anche allora rimane il dubbio


La lingua di Lucky sulla faccia

la mattina presto

quando ancora i sogni tardano sul pianerottolo


Il vento che fa piangere gli occhi e ridere il cuore

La pioggia che è fatta per fare all'amore


Datemi i resti

Neppure una briciola vada sprecata.

giovedì 31 gennaio 2019

Visione periferica

Prima correvo davanti alle vetrine dei negozi. Senza voltare la testa cercavo di capire il colore di un piumino o se si trattava di scarpe con i lacci o mocassini. All'inizio sbattevo nei passanti ed alcuni mi inseguivano con intenzioni poco amichevoli. Poi, quando l'allenamento ha cominciato a funzionare, tornavo indietro per vedere se mi ero sbagliato. Perché di solito quello che è importante non ce l'hai sotto il naso, lo percepisci con la visione periferica. Sono ombre, fruscii che si manifestano di soppiatto. Quando ti stai per spengere e sei sospeso fra la veglia ed il sonno, quando la tua mente lavora su altro e il corpo percepisce da solo, libero dal suo controllore. Se stai attento a non sbattere nei passanti la coda dell'occho percepisce i dettagli nascosti, i codici interni delle cose. Le lacrime di luce  che mai vedresti fissandole direttamente. Allora la tua notte si riempe di stelle e si aprono nuove combinazioni.

Adesso sono  davanti alla banca. Il motore della Multipla borbotta sotto le note dell'assolo di Lester Young in Mean To Me. Le dita tamburellano sul volante. Il piede vivo sull'accelleratore. Gli occhi fissi sull'ingresso mentre la mia visione periferica controlla la strada.
Qualsiasi movimento è un campanello d'allarme. La velocità è sinonimo di pericolo.
Enzo se ne è andato un mese fa e non so dove sia. Non l'ho cercato. Chiuso, finito.
Dieci anni di vita spariti in un mattino freddo, con la pioggia a rimbalzarti dentro. Stavamo insieme e ci prendevamo cura l'uno dell'altro e questo è molto di più di quello che capita ad un sacco di coppie.
Ma non scopavamo più. E prima o poi il corpo ti chiede il conto.

Dopo corro sulla tangenziale. Di nuovo la pioggia dentro e fuori.
Non so quanti soldi ci siano. Non mi interessa, non lo faccio per quello.
La strada mi viente incontro veloce ma quello che mi lascio dietro non l'abbandono davvero.
Dio sa quanto vorrei.

martedì 27 novembre 2018

Sguardi

Mi capita di incrociarli spesso. Il più delle volte ne farei volentieri a meno ma non posso sottrarmi.
E' una responsabilità che ad un certo punto ti casca addosso. Fino a poco prima dormivi sonni tranquilli e ogni giorno era solo una manciata di ore da mettere in fila, senza spingersi troppo lontano. Senza che il tempo avesse una dimensione così definita. Prima e dopo erano concetti labili, di cui valeva poco la pena occuparsi.
Quando li osservo, non troppo da vicino perché altrimenti scappano, vedo che hanno sguardi freddi. Credono di capire come funziona e non hanno bisogno di niente e nessuno.
Spesso, io credo, è quasi una forma di protezione, un bozzolo che si sono costruiti con fatica intorno. Adesso si illudono di navigare fra le intemperie. Di aver vinto quella fragilità che io immagino.
Ma magari mi sbaglio, non lo sono affatto, fragili non lo sono mai stati.
Sono io invece che rischio di andare in mille pezzi. Ogni istante.
Del resto è il modo in cui ho scelto di vivere.
Avrei fatto volentieri a meno anche di questo. Ma non posso. E' una questione di coerenza.
Da quando ho capito che sull'autobus non c'erano le maniglie da afferrare per non ruzzolare in avanti o indietro a secondo della volontà del conducente. Adesso non sono capace di  raccontare a quegli occhi storie diverse. Camminiamo tutti su un filo e sotto c'è spalancato il vuoto. E' una sensazione meravigliosa e terribile, che passa dal dire: ok, va bene, ho dei limiti e mi spaccherò la testa, ma va bene così, in fondo è il sale della vita. E questo costa. Quanto costa fare a meno di un abbraccio che protegga da tutto e da tutti? Quanto costa lasciare andare via quello cui più tieni al mondo?
Poi guardo altrove, ma so sempre dove sono quegli occhi. E so per certo, e lo capiranno anche loro, che la cosa più difficile è tornare da dove non sei mai stato.

mercoledì 24 febbraio 2016

C'è sempre tempo per essere

Quella mattina di primavera ero uscito di casa per la prima volta senza cappotto, anche se l’aria pizzicava ancora la pelle. Avevo comprato i giornali alla solita edicola e preso il caffè nel bar vicino alla banca, scambiando tre parole con il barista di cui ignoravo il nome. Ormai mi preparava il caffè proprio come volevo io, senza dover chiedere niente. Iniziava esattamente quando ero a metà del mio cornetto, e con un tempismo perfetto appoggiava il caffè macchiato sul banco proprio quando potevo inzupparci l’ultimo pezzetto del croissant.
Negli ultimi giorni aveva tentato anche di attaccare discorso. Le solite chiacchiere sul tempo e il campionato di calcio. Quella mattina aveva fatto un allusione non proprio velata sulle capacità amatorie della ragazza con il bastone bianco che entrava tutte le mattine alle otto in punto. La ragazza era bellissima e il suo profumo riempiva il locale rivelandomi la sua presenza senza il bisogno di girarmi a guardarla. Sentire il barista sussurrarmi con complicità  quell’affermazione tagliente  mi aveva provocato una strana sensazione. Fare una battuta del genere in quella situazione era senz’altro di cattivo gusto. Ma forse non farla sarebbe stato anche peggio. Del resto era quello che avevo pensato tutte le mattine da quando l’avevo vista entrare nel bar. Una donna bellissima che non ti vede ma che ti ama e di cui puoi essere gli occhi. Non era l’immagine di lei sotto il mio corpo che mi affascinava. Era essere i suoi occhi e riempire il mio cuore  del suo mondo, di una vita non vissuta dipinta di colori solo immaginati. Sentivo che tutto il mio destino, la ragione per cui mi trovavo su questa terra, si sarebbe realizzata solo con l’avverarsi di quel desiderio.  Poi il barista mi aveva chiamato per nome.

-"Dare un nome alle cose significa conoscerle, appropriarsi della loro esistenza”. Sentivo la voce strana di mio padre rimbalzarmi nella testa quando non riuscivo a rispondere alle sue domande. Magari aveva lavorato tutto il giorno in fabbrica dopo un turno massacrante di dodici ore e, prima di svenire sul letto, voleva controllare se avevo studiato la lezione del giorno dopo. E adesso il barista conosceva il mio nome e quei fili che legavano i nostri sguardi si facevano più stretti e insopportabili. Tutto quello che volevo era mettere un giorno davanti all’altro, perché tutto quello che avevo costruito, tutto quello che mi sembrava giusto e meritevole, si era rivelato un errore.
Sapevo che in altre circostanze quello sarebbe stato il momento di cambiare casa, strada, città. Ma questa volta la ragazza con il bastone me lo impediva.

Pagai la colazione e uscii dietro di lei. Si era alzato un vento leggero che sapeva di pioggia e il nero all’orizzonte la prometteva.  Rimpiansi di non aver preso il cappotto. Non sapevo che cosa avrei fatto. Camminava decisa sul marciapiede muovendo il bastone davanti ai suoi passi e facevo fatica a starle dietro.

giovedì 31 dicembre 2015

Gli uomini del circo

Esco. Cammino e fa freddo e fumo. Niente che sia come mi aspettavo. Poi una donna, la solita, mi sbuca dall’angolo della strada proprio prima che il marciapiede finisca. Non è che finisce, diventa altro. La donna mi dice: Puttana! Cosa hai da guardare? Perché venite a cercare gli uomini al Circo? Allora capisco che non dice a me e neppure a mio figlio ma ad un gruppo di signore che camminano dall’altro lato della strada. E mentre lo dice si avventa verso di loro e le fa scappare come le galline petto in fuori e testa incassata. Alcune si rimpiattano dietro di noi, altre si infilano fra le macchine in sosta e nella notte. Una risoluta impugna il cellulare e cerca aiuto. Ma quella allora la incalza e puttana a chi telefoni puttana. Io guardo le signore e mio figlio e dico: scappiamo. Corriamo sul ponte verso la porta, verso la piazza. Altri ci guardano incuriositi e le donne si girano sotto le ali a guardare se quella ci sta inseguendo. Poi mi chiedo perché dobbiamo scappare, da chi e da che cosa? Le donne mi dicono: è aggressiva, ci ha attaccato senza motivo, perché? Dobbiamo andare all’ostello e per farlo dobbiamo passare da quella strada. Non c’è altra via. Mentre parliamo sentiamo lo scalpiccio dei passi avvicinarsi e il ponte e la notte rimbombano di urla. Allora facciamo altri venti metri dentro la piazza ma quella non appare, non sbuca dalla porta, come se si fosse nascosta subito dietro, dietro il muro. Allora mio figlio vuole tornare indietro. Vuole tornare a casa. Dice alle signore riunite intorno a quella con il cellulare: noi andiamo a casa. Se volete potete fare un pezzo di strada con noi, e si avvia deciso verso la porta. Le donne mi guardano con fare interrogativo, quasi aspettassero il mio consenso. Ci incamminiamo dietro di lui. Ha già oltrepassato la porta e va deciso. Dietro il muro non c’è nessuno. La polizia non si vede e il fiume è fermo.

venerdì 25 dicembre 2015

Pranzo di Natale

Sopravvivere. Alla tovaglia arrogante ed al servito buono. Alle posate ossidate e ai tovaglioli cartonati. E ai suoi occhi. Questo era il punto più difficile del programma. Se ne era reso conto fin dalla sera prima quando, durante la veglia natalizia , la sua mente aveva provato a ricostruire il pranzo del giorno dopo. Dopo tutta una serie di antipasti e un succedersi martellante di primi e secondi i suoi buoni propositi capitolavano quando lei gli chiedeva quanto zucchero voleva nel caffè. E nel chiederglielo lo guardava inevitabilmente negli occhi. E lui ci cascava dentro. Durante tutto il pranzo, dopo essersi seduto all’altro capo della tavola ,fra lo zio Alfio e la nonna, aveva evitato accuratamente di guardare nella sua direzione, ma come un centravanti di razza sa sempre dove è la porta anche quando le volge le spalle, lui non avrebbe avuto problemi a specificare le coordinate spaziali che il corpo di lei occupava in ogni istante. E a riconoscere quel suo particolare profumo in mezzo alle vampate delle lasagne e agli assalti dello stinco in forno. Di fronte a lui Giampiero, il figlio quindicenne di suo fratello, continuava a chiedergli senza pietà delle percentuali scudetto della Fiorentina e lui in quel momento, mentre in qualche modo la sua pelle cercava di captare i riflessi luminosi che arrivavano da un sorriso lontano, si pentiva della maglia Viola che gli aveva comprato. E quasi l’avrebbe cambiata con una della Juventus. Sapeva bene che quel sorriso arrivava da dentro di lui. Era il materializzarsi dei suoi desideri e, mentre mangiava, si aspettava che gli altri commensali lo guardassero con sospetto, tanto era evidente al suo cuore il suo sentire. Solo l’attrazione è verità, tutto il resto è finzione, si ripeteva come un mantra mentre la nonna lo tirava per la giacca perché gli aveva già chiesto tre volte l’acqua ma lui non c’era, non era connesso con il resto dell’umanità. Tanto che si concesse di girare la testa verso di lei, sperando di incontrarne gli occhi. Lei lo guardò, per un attimo, lui si riflesse in lei e si vide, come un podista si intravede nelle vetrine dei negozi accesi la sera, poco prima della chiusura, mentre il cuore ti martella e sai che la tua corsa non finirà mai, perché l’unica cosa di cui ti importa davvero alla fine è soltanto correre. Chiuse gli occhi per un tempo che a lui parve brevissimo ma quando gli riaprì si accorse che la tavola era sparecchiata e non c’era più nessuno. Solo la tazzina del caffè fumante e la zuccheriera erano davanti al suo posto. Quasi lo stessero aspettando.

sabato 26 settembre 2015

Misericordia

Stette molto tempo a farsi la stessa domanda. Poteva portarla a casa certo poteva. Poteva anche girarsi dall’altra parte e fare finta di nulla. In fondo era un comportamento legittimo per un figlio di Dio. Sapeva bene che qualsiasi comportamento sarebbe stato legittimo. Anche pagarla e averla per tutta la notte. Oppure tentare di farle capire che c’era dell’altro oltre il suo corpo e il denaro che le procurava. Ma c’era veramente dell’altro? Era quella la domanda che continuava a farsi. Da tre anni. Lei lo guardava sorpresa. Non era abituata a clienti con quella particolare uniforme. Non pareva certo impaurita o imbarazzata. Forse divertita -Non te lo puoi permettere, rassegnati. Ma ci sei abituato no? Voi preti avete mille buone intenzioni, roba da mettere il mondo sottosopra e farne il Paradiso in terra. Ma poi- disse mentre si ritirava un po’ su il mini abito che la copriva, con il solo risultato di scoprirsi ancora di più, - poi vi rassegnate con gran dispiacere e andate a rinchiudervi nei vostri templi. Cominciava a far freddo la notte e l’estate, dopo un’afa che era durata mesi, si stemperava nei primi venti freschi di settembre. Una macchina sembrò accostare per poi allontanarsi velocemente. Gli sembrò di riconoscere un suo parrocchiano alla guida. Ma poteva anche sbagliarsi. -Cazzo Don mi mandi via tutti i clienti. Allora deciditi, cosa vuoi fare? -Non lo so signorina mi capisca. Non credo di averlo mai saputo che cosa volevo fare. Del resto si può immaginare come sia difficile prendere una decisione, un qualsiasi tipo di decisone, quando ci si trova nella mia posizione. Ma Dio è misericordioso, su questo non ho dubbi. Non ne ho mai avuti. E’ l’unica cosa che so per certo: anche se smettiamo di volergli bene continua ad amarci. Sembra impossibile vero signorina? Di solito quando smettiamo di amare qualcuno quello si preoccupa subito di contraccambiare. Lei frugò nella borsetta che aveva in borsa e tirò fuori lo spray urticante, allungò il braccio e glielo piazzò a dieci centimetri dagli occhi. Non scherzava affatto. Anzi i suoi occhi dicevano che non desiderava altro. -Io non ti ho mai amato e non comincerò certo adesso. Levati dalle palle. Subito. Non una sola parola. Non so dove vuoi andare a parare ma hai trovato la persona sbagliata. Lui si mise a ridere. Forte. La sua risata sembrava dividersi in note inconciliabili mentre usciva dalla sua gola. Come se una canzone fosse stata chiusa in un sacco e fatta a pezzi e poi ne uscissero fuori le note a caso. Poi disse: -Era proprio una persona che stavo cercando. Lei pigiò il bottone dello spray più forte che poteva.