mercoledì 24 febbraio 2016

C'è sempre tempo per essere

Quella mattina di primavera ero uscito di casa per la prima volta senza cappotto, anche se l’aria pizzicava ancora la pelle. Avevo comprato i giornali alla solita edicola e preso il caffè nel bar vicino alla banca, scambiando tre parole con il barista di cui ignoravo il nome. Ormai mi preparava il caffè proprio come volevo io, senza dover chiedere niente. Iniziava esattamente quando ero a metà del mio cornetto, e con un tempismo perfetto appoggiava il caffè macchiato sul banco proprio quando potevo inzupparci l’ultimo pezzetto del croissant.
Negli ultimi giorni aveva tentato anche di attaccare discorso. Le solite chiacchiere sul tempo e il campionato di calcio. Quella mattina aveva fatto un allusione non proprio velata sulle capacità amatorie della ragazza con il bastone bianco che entrava tutte le mattine alle otto in punto. La ragazza era bellissima e il suo profumo riempiva il locale rivelandomi la sua presenza senza il bisogno di girarmi a guardarla. Sentire il barista sussurrarmi con complicità  quell’affermazione tagliente  mi aveva provocato una strana sensazione. Fare una battuta del genere in quella situazione era senz’altro di cattivo gusto. Ma forse non farla sarebbe stato anche peggio. Del resto era quello che avevo pensato tutte le mattine da quando l’avevo vista entrare nel bar. Una donna bellissima che non ti vede ma che ti ama e di cui puoi essere gli occhi. Non era l’immagine di lei sotto il mio corpo che mi affascinava. Era essere i suoi occhi e riempire il mio cuore  del suo mondo, di una vita non vissuta dipinta di colori solo immaginati. Sentivo che tutto il mio destino, la ragione per cui mi trovavo su questa terra, si sarebbe realizzata solo con l’avverarsi di quel desiderio.  Poi il barista mi aveva chiamato per nome.

-"Dare un nome alle cose significa conoscerle, appropriarsi della loro esistenza”. Sentivo la voce strana di mio padre rimbalzarmi nella testa quando non riuscivo a rispondere alle sue domande. Magari aveva lavorato tutto il giorno in fabbrica dopo un turno massacrante di dodici ore e, prima di svenire sul letto, voleva controllare se avevo studiato la lezione del giorno dopo. E adesso il barista conosceva il mio nome e quei fili che legavano i nostri sguardi si facevano più stretti e insopportabili. Tutto quello che volevo era mettere un giorno davanti all’altro, perché tutto quello che avevo costruito, tutto quello che mi sembrava giusto e meritevole, si era rivelato un errore.
Sapevo che in altre circostanze quello sarebbe stato il momento di cambiare casa, strada, città. Ma questa volta la ragazza con il bastone me lo impediva.

Pagai la colazione e uscii dietro di lei. Si era alzato un vento leggero che sapeva di pioggia e il nero all’orizzonte la prometteva.  Rimpiansi di non aver preso il cappotto. Non sapevo che cosa avrei fatto. Camminava decisa sul marciapiede muovendo il bastone davanti ai suoi passi e facevo fatica a starle dietro.

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